Il 25 Aprile segna l’anniversario dell’insurrezione generale che vide il collasso definitivo della Repubblica Sociale Italiana e delle forze naziste in Italia. È una data che ha segnato profondamente, fin dai suoi primi anniversari, l’immaginario – e la ritualità – del movimento operaio in Italia. Depotenziatisi e ridottisi al lumicino i movimenti sociali in Italia, il 25 Aprile è stato definitivamente sussunto alla celebrazione della Repubblica nata dalla Resistenza. Vi sono alcuni aspetti meritevoli di approfondimento:
– una parte considerevole di quelle variegate forze che si lanciarono anima e corpo nella lotta contro il nazifascismo volevano distruggere le basi materiali che avevano fatto emergere le forze fasciste: la grande borghesia industriale, gli agrari, i centri del potere militare. L’accettazione della logica dei blocchi da parte delle forze politiche che emersero egemoni dalla lotta contro il nazifascismo segnarono la chiusura di quella finestra d’azione per le forze rivoluzionarie;
– la riorganizzazione dello stato italiano in forma repubblicana si attuò grazie allo smantellamento, avvenuto nel corso di due-tre anni, della capacità di intervento fattuale delle forze rivoluzionarie. Il monopolio della violenza da parte dello stato non poteva permettere l’esistenza di organizzazioni che potevano intervenire incisivamente nelle lotte che si svilupparono in quegli anni. I carabinieri e i costituendi reparti della celere dovevano avere mano libera di reprimere con il pugno di ferro gli scioperanti nelle grandi concentrazioni industriali e coloro che occupavano i latifondi. Al più si tolleravano e in alcuni si appoggiavano le bande armate filo padronali che mitragliavano le manifestazioni del Primo Maggio. La Repubblica Italiana è nata con il sangue degli operai e dei contadini ammazzati dalla polizia dei governi democratici;
– questa evoluzione era già presente, in nuce, negli stessi organismi presenti durante la guerra civile. I CNL nacquero entro i limiti degli accordi di Salerno e i tentativi di orientarli in senso rivoluzionario non poterono che essere votati al fallimento;
– il resistenzialismo, essendo una posa difensiva e conservativa dell’esistente e non offensiva, è destinato al nulla. Non è un caso che il termine “Resistenza” sia stato usato dopo la fine della guerra civile e di classe e non durante di essa.
L’azzoppamento della capacità di costruzione di un’autonoma capacità organizzativa di classe è ciò che ha permesso l’avvio di quel ciclo di accumulazione per il capitale italiano che è sfociato nel boom economico quindici anni dopo. La ritrovata forza economica della borghesia italiana è stata costruita innanzitutto sulla repressione delle forze politiche che non accettavano di subordinare la propria azione alla logica dei blocchi, in seconda battuta sullo sfruttamento feroce della classe operaia disciplinata in modo feroce nelle grandi concentrazioni industriali del Nord Italia. Una vera e propria mossa strategica che ha avuto nel costringere una parte considerevole della popolazione meridionale, esclusa dall’accesso alla terra, all’emigrazione e all’ipersfruttamento, la costituzione di quel vantaggio competitivo che ha reso “grande” l’industria del Belpaese. Sfruttamento a tutto campo estrinsecatosi non solo nello sfruttamento dei braccianti in fuga dal meridione come lavoratori del settore edile che dovevano ricostruire le città sventrate dalla guerra ma in tutte quelle attività “urgenti”, utili alla trasformazione fisica del Paese in moderna democrazia occidentale necessariamente a due velocità.
La retorica resistenziale, del frontismo, del nazifascismo sempre in agguato – e certo: non si era potuto abbatterlo una volta per tutte! – di fronte al quale bisognava “stringersi a coorte” attorno alle istituzioni repubblicane, sono state lo strumento utilizzato dalla forza politica egemone entro la classe operaia, il PCI, per contenere le spinte antisistemiche. Dopo le bastonate degli anni Cinquanta arrivò la carota del boom economico nei primi anni Sessanta ma bisognerà aspettare un altro decennio – al netto di momentanei sussulti di quanto si muoveva carsicamente, come in Piazza Statuto nel ‘62 o nel luglio del ’60 – per assistere a una ripresa generalizzata della conflittualità sociale, quindi di classe ma non solo, nel Paese.
Anche in seguito il PCI ma anche la stessa DC, erede di quelle componenti filomonarchiche presenti dentro la Resistenza, hanno utilizzato ampiamente la retorica della Resistenza per costruire una narrativa che fornisse uno schermo ideologico per la repressione dei movimenti sociali nel corso degli anni Settanta.
Nel corso dei decenni, il 25 Aprile ha subìto il processo di sussunzione che tutti possiamo osservare, non solo e non tanto in chiave di celebrazione e momento di estrema commozione di schilleriana memoria: si è riusciti ad andare oltre. Da narrazione eroica si è passati al revisionismo, nei 25 Aprile pacifisti nei quali si condannava la violenza – come se le lotte partigiane fossero state combattute a raffiche di confetti e con il lancio di bomboloni alla crema – fino a giungere all’evento mediatico. Fra una sagra, una fiera campionaria e un concerto, non si ravvisano differenze con molti degli eventi di “resistenza”. Sussunzione senza vergogna.
Resistenza come concetto strutturato ad arte per giustificare il proprio fallimento, resistenza passiva, resistenza creativa, resistenza esistenziale e altre dabbenaggini partorite come neologismo da un movimento che non è più in grado di realizzare come sia finito in una condizione tanto miseranda. Resistere al disfacimento, forse: un disfacimento solo in parte provocato dalla repressione, quella se mai ti invoglia ad alzare il livello dello scontro. Il cancro che ha divorato il tessuto connettivo socio-politico europeo, votandoci all’isolazionismo di comodo, è stata la piena e cosciente capitolazione alle logiche di riproduzione del capitale. Quando la memoria diventa evento e cominci ad organizzarti sei mesi prima perché devi fare a gara col resto della compagneria ad avere la locandina fatta dal grafico più in, il concerto più figo, il gruppo più “yeah” o il rivoluzionario di turno che ti viene a spiegare come si fa la resistenza, quando la riuscita della celebrazione si misura in quanta gente c’era e in quanto si è incassato, appare chiaro che la logica che muove il carrozzone non sia la volontà di rompere qualche schema, al massimo la volontà di rompere qualche record delle edizioni precedenti.
Resistere a sé stessi, far vedere che si esiste, pescare in un immaginario sempre più sbiadito per darsi un tono a tinte sempre più neutre, equidistanti, politically correct e narrare il tutto seppellendo fatti storici sotto strati di revisionismo d’accatto e neologismi inconcludenti. Così ne è uscito il concetto del 25 Aprile dagli anni ’90 e dai primi 2000. Masticato, digerito e riadattato a un movimento in profondissima crisi, crisi dalla quale ancora non immagina neanche di essere affetto.
Così, tra l’arroccamento strategico nelle enclave degli anni ’90 e l’antiglobalizzazione avvenuta con 15 anni di ritardo dei 2000, la ritualità del 25 Aprile ha assunto toni sempre più scialbi nelle proposte di radicalità e sempre più istituzionalizzati fino a giungere a passerelle per la campagna elettorale permanente tipica degli ultimi lustri.
Anche immaginando che al peggio non ci fosse limite, facendo un balzo in avanti di qualche decennio giungiamo al 2022. Le ferree logiche del capitale, del militarismo, del nazionalismo, scatenano una violenta guerra nel centro dell’Europa. La faglia geopolitica che accumulava tensioni da anni rilascia le energie accumulate sulla vita di milioni di persone. In primo luogo su coloro che si trovano a uccidersi vicendevolmente e su coloro che subiscono le conseguenze dirette di quegli scontri, anche però su coloro che pagano – e pagheranno ancora di più nel futuro – le conseguenze economiche della guerra.
Impreparati e sfiancati da più di venticinque anni di narrazioni ed affabulazioni di varia foggia, tra europeisti verdi ed ecologisti globalizzati, fra unionisti sinistrati e capitalisti etici, giungiamo a non riuscire più a capire la linea di demarcazione fra la giustizia sociale e il dualismo manicheo da stadio. Ci si polverizza in una nube atomica di incertezze e contraddizioni come probabilmente mai nella storia si sia potuto osservare. Chi è in grado, nonostante tutto, di influenzare le opinioni continua però ad estrarre dalla narrazione resistenziale gli spauracchi più grotteschi, rimodellandoli per l’occasione e sovraccaricando di enfasi ogni azione. Solo così appare plausibile l’uso della mitologia dell’Europa come soggetto culturalmente unitario – quella dell’unità politica è una barzelletta a cui credono giusto gli allocchi – nato dalla radice comune della battaglia contro il nazifascismo. Una mitologia che ha informato tutta la retorica europeista negli ultimi decenni, si infrangerà davanti a questa colossale negazione di sé stessa?
Vediamo già alcuni dei peggiori partiti guerrafondai mettere in pista tutto l’arsenale retorico della versione ultra edulcorata della guerra civile che sconvolse l’Europa negli anni ’40. La Russia putiniana sarebbe la nuova Germania nazista alla ricerca del proprio Lebensraum, questa volta ad ovest. La sacra alleanza delle democrazie è necessaria per sconfiggere l’ennesimo mostro venuto dallo spazio profondo.
È una menzogna. Le famigerate grandi democrazie che sconfissero il nazifascismo sono state quelle stesse democrazie che strizzarono l’occhio ai fascismi per un ventennio nella speranza, avveratasi, che questi potessero porre una battuta di arresto alle forze rivoluzionarie che erano emerse alla fine del primo conflitto mondiale. Quanto a una delle principali componenti dell’alleanza antifascista, l’Impero Russo rinominatosi URSS a guida stalinista, non si può neanche lontanamente dire che avesse dei caratteri vagamente democratici. I fascismi prosperarono in quelle nazioni maggiormente periferiche rispetto al nucleo anglo-statunitense del sistema-mondo del capitale. In USA, Gran Bretagna e in misura minore in Francia non vi fu bisogno del fascismo per fermare le spinte rivoluzionarie: ci furono le baionette democratiche durante repressione degli scioperi e delle istanze di liberazione anti-coloniale.
La carestia del Bengala causata dalle scelte del governo britannico durante la guerra non ha nulla da invidiare all’Holodomor stalinista. Se i genocidi voluti e programmati dalla Germania nazista spiccano qualitativamente – e non solo quantitativamente – per la loro organizzazione in chiave industriale, la gestione di quelle che sono viste come eccedenze di popolazione mediante l’omicidio di massa è stata una caratteristica degli stati del Novecento.
La guerra e il dominio statale e capitalistico sono legati strutturalmente tra di loro. Non vi può essere pace in un sistema economico irrazionale votato all’accumulazione dei pochi e alla spogliazione dei più. Non ci vengano a raccontare dei quasi ottanta anni di pace: la pace non vi è mai stata, vi è stata la delocalizzazione della guerra guerreggiata. Vi era pace in Vietnam o in Afghanistan? Vi era pace in Somalia o in Medio Oriente?
Nel 2022 la guerra si è reinternalizzata, ma alcune prove tecniche vi erano state già nei Balcani vent’anni fa, mentre attendiamo la prossima zoonosi e la prossima crisi finanziaria. A chi serve, dunque il 25 Aprile?
– Serve allo sfruttato che lotta oggi per imparare le lezioni dello sfruttato che ha lottato ieri.
– Serve a ricordarci che la detenzione amministrativa che ieri ti colpiva se ti chiamavi Cohen e vivevi in un paese europeo che aveva deciso che eri nemico per il semplice fatto che esistevi, oggi ti colpisce se ti chiami Issam e vivi in un paese che ti considera eccedenza da mettere in deposito.
– Serve a ricordarci che le sirene del campismo trovano sempre volenterosi che le suonano.
– Serve a ricordarci che nelle guerre c’è chi si arricchisce e chi muore.
– Serve a ricordarci i nostri compiti.
Buon Venticinque di Aprile.
Abraham de Lacy